Il Coronavirus dal mio punto di vista

14.03.2020

Oggi mi ero ripromessa che avrei dormito fino a tardi ma, vuoi la sveglia biologica vuoi il casino esterno, ad una certa ora ero già attiva. Così, dopo essermi crogiolata nel letto per un po', ho deciso di alzarmi presa da una grande voglia si scrivere (e dalla fame). Quindi adesso eccomi qui, davanti al computer. Anche se ogni due parole mi devo fermare perché il mio cane, seduto vicino a me, pretende una carezza.

Sappiamo bene tutti che momento sia questo per l'Italia e per il resto del mondo. Quando abbiamo festeggiato il nuovo anno, allegri ed euforici al pensiero delle cose che ci avrebbero aspettato in questi 366 giorni, nessuno avrebbe mai immaginato tutto ciò. Ho sentito diverse voci sugli anni bisestili ("anno bisesto, anno funesto"), ma io in realtà li ho sempre amati perché, almeno per quanto mi riguarda, sono stati ogni volta i più felici. Invece qualcosa nel 2020 (che mi piaceva anche per la combinazione dei numeri, un nuovo decennio e così via) è andato storto. Il COVID-19 è entrato prepotentemente nelle nostre vite, stravolgendole. Non mi dilungherò spiegando che cos'è o da dove viene perché ormai dovrebbe essere ben chiaro a tutti. Da settimane alla televisione, sui giornali e con i propri amici si parla solo di questo argomento. Quella che è stata definita una "pandemia" e ci sta obbligando ad isolarci, a stare lontani gli uni dagli altri, a cambiare le nostre abitudini da una semplice colazione al bar alla pizza fuori il sabato sera. 

Ero proprio al ristorante, lo scorso weekend, quando ho appreso la notizia del Decreto che dichiarava la Lombardia, la nostra bella isola felice, zona rossa. Devo ammettere che prima non avevo davvero compreso quanto fosse grave la situazione, anche a causa di una comunicazione che, secondo me, è stata inefficace e poco chiara. Un'ansiosa come me era straordinariamente tranquilla. Tuttavia nell'ultima settimana, muovendomi ogni giorno per una Milano sempre più spoglia e deserta, ho cominciato finalmente a capire. E adesso, sono onesta, nonostante io stia cercando di mantenere la calma grazie allo spirito di sopravvivenza che ho affinato negli anni di fronte alle emergenze, un po' di paura ce l'ho. 

So bene che non è il momento giusto per fare polemiche, e non è assolutamente mia intenzione farne, però vorrei approfittare di questo spazio per parlare di qualcosa che non mi è piaciuto. Viviamo nell'era digitale - che attualmente potrebbe essere una grossa fortuna perché in questo periodo di segregazione forzata ci permette di sentirci meno soli - pertanto ecco che è girovagato subito in rete, veloce come una trottola, il trend #stateacasa. Il meraviglioso cancelletto che fino a ieri veniva usato principalmente per acchiappare più like su Instagram. Comunque un bel messaggio, certo. Non voglio discutere di questo. Si cerca di trasmettere, soprattutto ai più giovani e ai soggetti anziani, l'importanza di fermarsi in vista di un bene molto più grande. Ma non è tutto, purtroppo. Perché, come sempre in queste situazioni, presi dall'onda più opportuna da cavalcare, ci si dimentica di qualcosa. In questo caso proprio delle persone. Di chi quell'hashtag vorrebbe anche metterlo, ma non può. Quelli che non hanno la possibilità di chiudere o lavorare da casa; quelli che, come me, ogni giorno sono costretti a proseguire con le loro vite normalmente (più o meno). 

Da qualche settimana ho cambiato lavoro: adesso faccio parte del personale ATA presso un istituto superiore a Milano. L'istruzione non si può interrompere, nonostante la chiusura imposta alle scuole da quel 24 febbraio che appare oggi lontanissimo. I ragazzi devono continuare ad essere seguiti, anche a distanza; le mamme e i papà che telefonano quotidianamente per sapere come andrà a finire, vanno rassicurati. Perciò io e le mie colleghe ogni mattina, munite di guanti in lattice e mascherina come se fosse una divisa da supereroine, ci alziamo e andiamo a fare il nostro dovere. E così, come noi, tanti altri: operatori sanitari, bancari, autisti, dipendenti sei supermercati... e via dicendo. Prendiamo treni e metropolitane, guardandoci con sospetto e con il timore che qualcuno si avvicini troppo.

Io ho paura, sì. Ma non solamente per me. Mi terrorizza il pensiero di poter prendere qualcosa e portarlo ai miei genitori, che sono troppo "vecchi" per ricevere delle cure adeguate. Tanto più per guarire spontaneamente. Mi preoccupa l'eventualità di ammalarmi e di togliere il posto letto ad un nonno che, dopo un'esistenza di sacrifici, vorrebbe solo godersi gli ultimi meritati anni vedendo crescere e giocando con i suoi nipotini. Ed, egoisticamente, sono spaventata all'idea che un posto possa non esserci per me se ne avrò bisogno. Io che mi lamento sempre, ma ho ancora tanto da fare e da dire. Come tutti noi. Mi si apre un sorriso amaro ricordando chi all'inizio ci raccomandava di stare tranquilli poiché questo virus colpisce solo gli individui di una certa età e quelli che soffrono già di patologie, come se ci fosse una categoria meno degna delle altre di vivere. Queste sono le cose a cui penso prima di indossare la mia mascherina non omologata perché le altre sono introvabili, che sembra più che altro un assorbente e mi fa appannare gli occhiali a tal punto che sono obbligata a toglierli per camminare. Così che sdrammatizzo dicendomi che se non sarà il Coronavirus a farmi fuori, ci penserà qualche auto ad un attraversamento pedonale. O io stessa, ribaltandomi giù da una rampa di scale che non avrò visto in tempo. Ipotesi che potrebbe accadere anche mentre porto gli occhiali, in effetti.

E poi ragiono su chi è tenuto a fare una scelta: tutelare se stesso e gli altri smettendo di recarsi al lavoro ma con il rischio di perdere l'incarico (visto che si sa che qui in Italia, si dica ciò che si vuole, funziona così), oppure continuare ad andare perché c'è una famiglia da mantenere, dei figli che devono mangiare e il mutuo da pagare. Rifletto su quelle povere donne che ogni giorno subiscono maltrattamenti fisici e psicolocigi dai propri compagni e, no, non si sentiranno affatto più al sicuro sapendo di essere a casa. Dunque, mi dispiace, ma non riesco a gridare a tutti di non uscire, comoda dal mio divano, perché questa è la nuova moda e il mondo mi ha concesso tale privilegio, senza prima aver considerato tutto il resto. Sarà che per indole caratteriale sono incline a stare dalla parte dei più deboli, delle minoranze la cui voce, in mezzo alla confusione di chi urla e sbraita, si sente sempre troppo poco. Uno slogan come #viciniancheselontani, che comprende tutti, per me sarebbe stato meglio. Più vero e sentito, meno banale e sempliciotto.

Questo è il mio umile pensiero, che non vuole offendere o far arrabbiare nessuno ovviamente, ma solo aprire la mente facendo riflettere da un altro punto di vista. Se qualcuno avrà voglia di condividere la propria opinione con me, ne sarò ben felice. Ora mi preparo a questo weekend di quarantena insieme al mio cane e a Grey's Anatomy che, anche se ormai conosco tutte le puntate a memoria, non mi annoia mai e mi fa sempre piangere come una bambina. Fantasticando sul fatto che magari Meredith Grey riuscirà a trovare una cura per questo cancro e ci salverà tutti.

Mando ad ognuno di voi un abbraccio virtuale, più forte del solito, in attesa di quelli veri. Che saranno dolcissimi e pieni di amore proprio perché li avremo aspettati tanto.

Alenka

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